festa del papà

cinque minuti, il tempo che corre tra l’intrattenersi o meno a salutare, lo scarto dei secondi impiegati a rallentare in prossimità di un angolo, o ad accelerare lungo le scale in discesa.
cinque minuti è stato il tempo impiegato dalla luna, alcune sere fa, per mostrarsi e nascondersi.

ho cercato ripetutamente di racchiuderla in foto, catturare lo stupore.

ingenuamente l’ho creduta immobile, eterna.

scatto dopo scatto, invece, l’ho scoperta elevarsi, arrotondarsi, frastagliarsi, infine sparire. sanguinolenta e altera, impenetrabile, è stata presa da nuvole che non avevo visto, nere sul nero.

solo più tardi ho realizzato che non ci saremmo incontrate se fossi arrivata cinque minuti prima. se avessi detto un “ciao” di meno o svoltato l’angolo più lentamente. non l’avrei notata, cinque minuti dopo.

con l’età il mondo mi sembra dividersi in chi ha perso i genitori e chi ha la fortuna di averli ancora.

respiro questa festa del papà, la gioia di un incontro che si rinnova, il privilegio di quei cinque minuti.

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il glitch

ho incontrato una mia compagna delle elementari e sono caduta in un glitch.
l’ho fissata a lungo, non riuscivo a smettere.
il fatto è che ricordo bene sua madre, giunonica e bellissima, bionda, sorridente, luminosa.
mentre guardavo questa mia compagna, vedevo quanto profondamente somigliasse a lei ed ero incredula e spaventata.

quando le ho conosciute avevo l’età di mio figlio oggi. per guardare questa sua madre e farla entrare tutta dovevo alzare gli occhi e sgranarli.

davanti a me, ieri, c’era di nuovo questa madre bellissima e luminosa.
io ero di nuovo una bambina e anche la mia compagna era una bambina. ma come poteva essere che lei fosse una bambina e allo stesso tempo fosse anche sua madre, mi chiedevo.
anche io che guardavo lei diventavo una bambina e allo stesso tempo ero mia madre.

e questa cosa che a un certo punto si diventa come le madri, nel togliersi gli occhiali quando si alza lo sguardo dai compiti o nel suono della tosse o nel modo di appoggiarsi a tavola, questa cosa di assottigliarsi sempre di più fino a tornare a essere grembo, l’origine e la fine del tempo, ritrovarsi al punto di partenza eppure a un passo dalla fine – sempre alla madre si torna, sempre ad assomigliarle – questa cosa non so ancora come descriverla e non so ancora nemmeno se riesco ad abbracciarla.

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requiem

per sbaglio ho rotto un piatto e ho pianto. era nuovo, grande, lucido e blu. i guanti di gomma erano troppo stretti, ho perso la presa.

avevo otto anni. la luce della mia camera si è fulminata. anche quella volta ho pianto: per preservarla la spegnevo sempre, ogni volta che non serviva. non è bastato.

nella consegna di sè stessi c’è sempre del dolore.

ho le tempie sempre più bianche. le macchie aumentano sulla pelle in arcipelago. dovrei tingermi i capelli, mi dicono. ma a che servirebbe? non avrei indietro la fertilità.

è un aborto ogni romanzo in attesa di venire pubblicato . i personaggi vivono come fantasmi che chiedono di essere liberati.

la verità non è mai abbastanza.

la verità è come ce la raccontiamo.

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sermone di inizio anno

domani inizia un nuovo anno scolastico e io voglio fare un sermone.

voglio fare un sermone e voglio dire: lasciamo che il diritto alla disconnessione venga a noi.

la scuola occupa almeno metà del mio tempo. tre quarti del tempo dei miei studenti.

sento raccontare che molti insegnanti, di ogni ordine e grado, ne chiedono invece un po’ di più. che assegnano i compiti delle vacanze il 19 di luglio e cambiano sistematicamente le consegne alle 20 di sera.

a volte l’ho fatto anch’io. ma nel frattempo guardavo le mie chat scolastiche affollarsi fino a sera tardi e proporre riunioni non urgenti per il fine settimana nonostante vigesse la settimana corta (eh, ma sono on line). e mi era chiaro che qualcosa non andava.

ecco cosa auguro a tutti noi per l’anno scolastico 2022/23:

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worn out

worn out, logorato, e mentre lo pronunci già ti sgonfi, ti afflosci, ti trovi esautorata. arrivi worn out alla fine di maggio, il mese che fa rima con viaggio, di quelli che le strade sono così tortuose che ti sembra di stare dentro la tua testa. arrivi worn out in fondo a un pensiero che hai rimuginato masticato deglutito ma mai digerito, infatti risale e tu ti ritrovi a ruminare il tuo stesso bolo.

c’era una volta una bambina che aveva un sorriso grande. poi ha messo l’apparecchio ai denti e ha tagliato i capelli a caschetto. da quell’anno, riferisce sua madre, ha iniziato a sorridere solo con le labbra, in linea sottile.

il sorriso grande non è ancora tornato, con la linea sottile la bambina ci lega i dubbi per non farli viaggiare troppo davanti agli occhi. che poi, è tanto affidabile, quello che si vede con gli occhi? non dovremmo credere di più a quello che intuiamo?

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intatto preservi il figlio

per riemergere dallo tsunami di dolore di ieri, oggi cerchiamo un ceppo a cui aggrapparci. stiamo iniziando a razionalizzare.

la disgrazia capitata all’asilo de l’aquila ha dato forma alle nostre paure più atroci. un genitore che nasce, vede germogliare in sè la paura della morte. inizia un corpo a corpo con lei che – lo capisci solo quando il genitore sei tu – durerà per tutta la vita.

di tuo figlio controlli il sonno, il respiro durante il sonno, la posizione, e il cuscino che sia piatto. visite regolari dal pediatra, prima quello pubblico, poi quello a pagamento, poi lo specialista, impari la disostruzione infantile. i prodotti per il corpo, i più naturali possibile, e che il cibo sia possibilmente locale, artigianale magari.

una mamma era arrabbiata con suo figlio adolescente che aveva deciso di farsi il tatuaggio, “con tutta la fatica che ho fatto per tenere la sua pelle intatta”.

e intatto preservi il figlio, controlli tutto affinché non te lo rovinino, certo al parco può cadere, certo sì le mani in bocca, si farà gli anticorpi, ma le parolacce no, dammi la mano mentre attraversiamo la strada, fermati quando ti dico di fermarti, stai vicino a me e non ti muovere.

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