nel giro di tre giorni mi è capitato di conoscere due figli di personaggi dai nomi piuttosto… ingombranti: il 20 agosto a loreto ho conosciuto giovanni baglioni, figlio di claudio, e ieri sera ho conosciuto dan fante, figlio di john (nipote di thor, figlio di gmarr, della tribù di starr… vabè, penso non smetterò mai di fare questa battuta e di ridere ogni volta).
a costo di essere banale, la domanda che ho fatto ad entrambi è stata: ma con un padre così imponente, proprio la stessa sua carriera dovevi scegliere? voglio dire, non avresti avuto più identità se avessi scelto che so, la carriera di avvocato… o di diventare un pittore… un vignaiolo… come convivere con l’idea che tutti (e sottolineo tutti) faranno il paragone tra te e tuo padre?
la risposta è stata abbastanza disarmante da entrambe le parti. giovanni ha 28 anni (o 29, non s’è capito) ed è una creatura eterea, quei pochi muscoli che ha se li è fatti probabilmente imbracciando una chitarra che fino a pochi anni fa secondo me era più pesante di lui. una passione viscerale sigillata col sangue (pittoresca la storia del brano “bloody finger”: «stavo cercando la musica e alla fine mi sono accorto che le corde erano rosse… mi ero tagliato i polpastrelli a forza di suonare»), che si muove leggera insieme a lui sul palco, senza disturbare. è la musica a parlare per lui. è facile minimizzare sul fatto che si chiami baglioni, ma nella sua storia professionale accade una cosa molto intelligente, anche se non voluta: giovanni fa tutt’altro rispetto a claudio. non è cantautore, ma musicista. lui le storie le racconta con le note. con la cassa della chitarra, con ogni centimetro delle corde. spettacolare.
se non è vera la storia che il talento si possa tramandare geneticamente, sicuramente vero è che per esempio in casa di claudio baglioni, vuoi o non vuoi, di musica hai sempre sentito parlare, e con le note ci sei cresciuto. forse è semplicemente questo il punto in cui il cerchio claudio e la tangente giovanni si incontrano.
mi viene in mente un altro figlio di suo padre, ed è filippo graziani che ho conosciuto a maggio a cantine aperte, per l’evento “maledette malelingue” nella cantina zaccagnini. ha un anno meno di me ed è molto spigliato. di giulianova ha un ricordo molto “simpatico”, una cicatrice che gli segna la faccia da quando è stato investito, da piccolino, all’uscita di un sottopassaggio (ah ma io non sono proprio di giulianova giulianova centro… -.- ). per filippo, che a differenza di giovanni il padre lo ha perso da giovanissimo, cantare le canzoni di ivan (con una voce emozionevolmente (?) uguale) è anche e soprattutto un modo per ricordarlo, e ascoltarlo è un modo per illudersi che il cantautore teramano sia ancora vivo. chissà su quante cose musicali avrebbe voluto o vorrebbe ancora confrontarsi. lui comunque è in giro con un gruppo suo, e cerca la sua strada a milano.
dan, infine. è venuto a tocco da casauria per una serata-appendice al festival “il dio di mio padre”, dedicato a john fante e che come ogni anno si è svolto a torricella peligna sotto la direzione di giovanna di lello.
credo che il suo nome completo sia daniel. dan ha cominciato a scrivere tardivamente, una decina prima della morte del padre. il padre stesso, raccontava ieri, ha conosciuto la notorietà verso la fine della sua carriera, così mentre era in vita «non è stato molto diverso da vivere accanto ad un avvocato, che usciva, andava a lavorare e tornava a casa». l’aura di john, per dan, è vera e propria luce, «io ho sempre saputo che mio padre era un talento», e da bravo americano non ha difficoltà a cavalcare l’onda del suo successo. ma diamine, perchè scegliere un alter ego come protagonista dei tuoi libri? tuo padre usava arturo bandini, uno scrittore che non riusciva ad affermarsi, e tu ora hai scritto quattro quasi cinque libri (il quinto lo ha annunciato ieri sera, un giallo ma sempre con lo stesso protagonista) avvalendoti di bruno dante, guarda caso uno scrittore che non riesce ad affermarsi. perché dare l’impressione di percorrere lo stesso solco di tuo padre? perché? why? warum?
non ci ho pensato, dice. quando ho cominciato a scrivere lo facevo per non pensare alle voci nella mia mente che mi chiedevano di bere. in america 28 milioni di persone sono alcoliste (tipo il 10%, se non ricordo male). dopo il quinto tentativo di suicidio ho cominciato a spaventarmi sul serio e ho deciso di smettere. e per smettere di bere ho cominciato a scrivere. stop. that’s the point.
certo questi figli dei loro padri hanno a disposizione uno know how che ai comuni mortali sfugge; però, come tutte le cose, occorre saperlo usare. nessuna “zampata”, in una società meritocratica, funziona se poi il posto non lo si sa mantenere.
e poi forse è vero che buon sangue non mente. mio padre non fa lo scrittore ma ha nei suoi cromosomi una passione infinita per le parole, e non si stanca mai di usarle. e poi arriva sempre un tempo in cui l’aura di un grande personaggio si smorza e nel buio è più facile distinguere le altre stelle.