me ne stavo lì, pietrificata. ludovico einaudi era davanti a me, firmava autografi con le spalle protette da due gorilla che smistavano persone come si fa intorno alle rockstar.
si sottoponeva docilmente alla prassi, forse anche stupito che ci fossero tanti giovani per lui. io ero e non ero in fila, aspettavo un po’ distante, con mio marito che, pronto con l’iphone, mi spronava invece ad avvicinarmi.
sarebbe stata la terza foto con ludovico einaudi nel giro di pochi anni, ma in pochi anni alcune cose erano cambiate e il risultato era che quella sera continuavo a fissarlo e a restare poco lontana.
come spiegargli in poche parole cosa significasse la sua musica per me, la dolcezza del suo effetto sulle mie corde, l’onnipresenza delle sue note nelle mie giornate? quali sillabe avrei dovuto scegliere, affinché non mi guardasse come guardava tutti, intimorito dalla folla e probabilmente stanco alla fine di una serata insostituibile?
una stella cadente aveva attraversato un suo brano, durante il concerto all’aperto.
alla fine, quelle parole non le ho trovate e ho lasciato che lui andasse via. continuo a cercarle anche adesso, ogni volta che chiedo al suo pianoforte e al sospiro del violoncello di riempirmi la casa, le orecchie e il ventre in un conforto dolce e senza nome.
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